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‘Gli apostoli del ciabattino (edito Paginauno) è un libro intenso, storico, romantico, importante. Una storia italiana che si intreccia con le dinamiche della Storia, con la ‘S’ maiuscola, rappresentando simbolicamente la storia di ognuno di noi, fatta di tradizione, cultura e passato. Abbiamo chiesto al suo autore Massimo Vaggi le nostre curiosità da lettori

La storia di un uomo, proveniente dalla realtà contadina, che in guerra, per sopravvivere, come unica ancora di salvezza ricorda il suo passato. Amore, guerra, tradizioni, sono ingredienti inscindibili nel tuo libro, come nasce il tuo libro e perché proprio un periodo storico specifico della nostra Italia?

In questo romanzo, come in molti altri, esiste un dato di esperienza autobiografica, nel che caso è geografico. Io vivo in un luogo che potrebbe essere quello dove visse la famiglia del protagonista. I miei vicini di casa erano contadini, molto anziani, persone che avevano attraversato gli anni venti e trenta del secolo scorso e di quel periodo conservavano alcuni ricordi, esperienze e anche la lingua, il dialetto. I dintorni di casa mia sono poi gli stessi che videro esplodere in modo feroce la repressione delle squadracce nere sui coloni sindacalizzati, e che ancora prima avevano vissuto stagioni di contrapposizione e conflitti tra agrari e lavoratori della terra, di cui c’è qualche traccia nel libro. Se tutto questo non è sufficiente a determinare le ragioni dello scrivere di uno specifico argomento, tuttavia costruisce un mondo di suggestioni che è la base emotiva sulla quale lavorare. In qualche modo, stabilisce per me il confine del racconto. Dopo di che si impongono altre cose: da un lato un interesse specifico per l’analisi storica, per quanto riguarda Gli apostoli, e dunque il periodo della guerra coloniale in Etiopia, rappresentata soprattutto dallo studio dei testi di Angelo Del Boca, che resta a mio avviso il maggior storico del nostro colonialismo, e dall’altro la curiosità di carattere antropologico per la comunità contadina bolognese dell’inizio del secolo scorso, i suoi valori e il suo dialetto. Devo dire che, guardando all’Italia di oggi, mi sembra che i primi decenni del novecento siano quelli che si caratterizzano per il fatto che allora nacque tutto: i grandi ideali e i grandi movimenti sociali, la percezione ancora vaga di una nazione unita, la stessa lingua unitaria. Non dico per capire, sarebbe forse troppo, ma per valorizzare l’oggi non possiamo non conoscere le radici del nostro pensare, e la loro ramificazione fino al quotidiano.

Quando si parla di guerra purtroppo si parla molto spesso di attualità, libri come il tuo fanno capire che molto poco rispetto a prima sia cambiato, però forse quello che oggi manca soprattutto è quell’aspetto romantico e quel voler riscattare le proprie radici che forse oggi un po’ si è perso. Come mai?

La guerra di cui si parla nel libro è quella dell’avventura coloniale in Etiopia, una pagina troppo spesso rimossa del nostro passato, o che ripropone quel cliché di “italiani brava gente” che serve ad assolvere da ogni responsabilità. E’ la storia sempre ripetuta degli italiani che facevano una guerra da burletta, che in guerra andavano pensando alle donne o ai compagni di avventura, che mantenevano rapporti di serena complicità con i nemici, eccetera. L’armata sagapò in Grecia, l’armée des parfums in Francia.… e via via, sino ad oggi, sino a film come “Mediterraneo” che pure ho amato molto. Non è tanto importante sapere quanto fosse vero, ma è importante conoscere l’uso che si è fatto di questa grande mistificazione. La guerra è guerra, ed è sempre terribile. Gli italiani, in Libia come in Etiopia, hanno mostrato il volto feroce del conquistatore e ne hanno combinato di ogni, compreso l’uso delle armi chimiche di cui parlo nel romanzo. Diciamo che non abbiamo imparato, come hanno fatto altri popoli meno propensi ad assolversi, a fare i conti con le nostre responsabilità storiche e politiche.

 Chi sono veramente ‘Gli apostoli del ciabattino?

Gli apostoli del ciabattino sono dodici anime che il ciabattino vince giocando a carte con il diavolo. Nel romanzo ci sono alcune storie, che costituiscono l’ossatura del mondo di valori del protagonista bambino. Sono favole, canzoni, filastrocche, tratte per lo più da una raccolta di fiabe napoletane del settecento, tradotte in bolognese con il titolo “la ciaqlira d’la banzola”. Storie di santi ed eroi da due soldi, animali da cortile e uomini selvatici, del diavolo e di contadini, i cui protagonisti erano e sono fortemente simbolici delle virtù e dei vizi dell’uomo, come accade in ogni tradizione favolistica che si rispetti. Giuseppe, il piccolo protagonista che il padre ritiene ritardato solo perché non parla, vive di quelle storie che la madre gli racconta, e dei significati che per lui rappresentano. Intorno al contenuto di quelle storie costruisce piano piano un mondo di valori essenziali e attraverso quelle storie definisce una volta per sempre il confine tra ci che è giusto e ciò che è ingiusto, un confine che sarà sempre ben chiaro nella sua mente, anche in età adulta.

 Questo non è il tuo primo libro, nei tuoi precedenti lavori c’è sempre come filo conduttore la storia e il rapporto intrinseco tra uomo e storia, tra il passato e le tradizioni dell’Italia, racconti di passioni, radici e senso di appartenenza, cosa pensi dell’Italia di oggi ed è vero il detto ‘si stava meglio quando si stava peggio’?

La storia insegna, ovviamente, ma soprattutto la storia costruisce. Noi siamo quello che hanno pensato e fatto i nostri padri e i nostri nonni e i nostri bisavoli e così via. Il richiamo continuo al ricordo e alla conoscenza non è vuoto, se pensiamo che con l’elaborazione delle esperienze passate proviamo a comprendere il filo rosso che lega tutti i cambiamenti e anche le fratture, anche quelle più evidenti, nei modi di pensare e di vivere. Quando scrivo della resistenza non voglio tanto capire la resistenza – certo, anche questo – ma soprattutto capire cosa della resistenza è rimasto dentro di me. Il mio interesse è sempre andato, in questo senso, a eventi storici che mi sembravano significativi: il passaggio dall’ottocento al 900, l’eccidio di Sarajevo, gli anni della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale…. Il tutto però attraverso gli occhi di chi vive storie minori, di personaggi che di quella grande Storia non sono protagonisti, ma spettatori marginali, come nella vicenda dell’alter ego di Guglielo Marconi in Delle onde e dell’aria, quando non vittime, come accade in Sarajevo novantadue

A quando il tuo prossimo libro e cosa consiglieresti ai giovani di oggi che forse hanno meno senso di appartenenza rispetto a prima, meno voglia di combattere, visto che ogni anno purtroppo sentiamo spesso la notizia ai tg che sempre troppi giovani se ne vanno via dall’Italia, invece di costruire in patria il proprio futuro.

Io penso che i cicli storici si misurano con tempi che non sono quelli che vorremmo. Oggi stiamo vivendo un periodo in cui tutto sembra afflosciarsi e ridursi, impaurito dalla prospettiva di affrontare temi che sembrano troppo grandi, e che invece saranno la scommessa dell’umanità nei decenni a venire: l’incontro\scontro tra civiltà e religioni, la mondializzazione dei fenomeni, le migrazioni sociali e quelle climatiche, l’impoverimento delle risorse del pianeta, le drammatiche variazioni ambientali, la sopravvivenza delle fasce di popolazione e dei paesi più forti e ricchi…. Questi temi si impongono in tutta la loro urgenza, vorrebbero una risposta complessiva e forte, fondata su valori condivisi. Noi invece siamo confusi e non sappiamo cosa proporre: le nostre conoscenze e i nostri valori non bastano più, sono figli di un periodo che è andato. Dobbiamo imparare dalla nostra esperienza per inventarne di nuove. Ecco, penso che ci vorrà del tempo. Molto tempo. Bisognerà ricostruire un sistema di valori, sapendo che necessariamente ne vedremo il processo di costruzione, ma non conosceremo probabilmente i suoi esiti. Il che sarà il vero dramma, perché alcuni problemi non ci stanno certo ad aspettare (penso ad esempio all’intervento sulle emissioni e sul clima). Dunque, direi di lavorare serenamente ma con un certo senso dell’urgenza….

 

Massimo Vaggi, nato a Domodossola (VCO) in data 31.3.1957. Laureato nel 1980 in giurisprudenza all’Università Statale di Milano. Esercita la professione di avvocato, specializzato in diritto del lavoro. Consulente della FIOM, della CGIL e del patronato INCA CGIL. Vive in campagna vicino a Bologna. Sposato con tre figli. Presidente e responsabile dei progetti di cooperazione all’estero per conto dell’associazione NOVA Onlus, associazione di volontariato di genitori adottivi, ente accreditato all’adozione internazionale. Redattore e membro del comitato di redazione, fino dalla sua fondazione, di Nuova rivista letteraria, semestrale di letteratura sociale, ed. Alegre.

Tra le sue pubblicazioni: Un silenzio perfetto (Pendragon, 1996), Tu, musica divina (Interlinea, 1999), Delle onde e dell’aria (Mobydick, 2002), Al mare lontano (Pendragon, 2005). Sarajevo novantadue (PaginaUno, 2012), Gli apostoli del ciabattino (PaginaUno, 2016). Il racconto compare nelle collettanee Sorci verdi (Alegre, 2011) e Lavoro vivo (Alegre, 2012).

 intervista di Francesco Basso

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