KENIA ESPLOSIONI

CORRUZIONE, POVERTA’, MALATTIE, MA ANCHE GRANDI EMOZIONI

L’Africa è per molti un sogno. Un continente selvaggio, primordiale. Fatto di stupendi tramonti ed unici panorami. Di animali ed ecosistemi affascinanti.
Un luogo dove la vita scorre lenta, semplice, ma spesso con grandi difficoltà. Una realtà così diversa da quella a cui siamo abituati e che può incantarci una volta per tutte.
Si sente spesso parlare di “Mal d’Africa”.
C’è chi dice che sia dovuto all’incapacità di riprendere il proprio stile di vita dopo quei giorni passati nel continente nero. C’è chi dà una spiegazione più scientifica, affermando che l’homo sapiens è nato là e che nel nostro DNA l’Africa rimane la terra madre alla quale tutti aspiriamo.
Altri relegano il Mal d’Africa ad un retaggio romantico che trova le sue origini nella letteratura coloniale.
Io non so se esista oppure no. Potrò dirvelo solo una volta tornato in Italia. Ma non mi vergogno a raccontarvi che viaggiando a cavalcioni di una moto, guidata da un indigeno masai, nel bel mezzo della Rift Valley keniota, mi sono emozionato.
Mi sono emozionato quando ai piedi del vulcano Suswa i bambini, sentendo il rombo del motore, correvano fuori dalle loro capanne solo per sorridermi eccitati e salutarmi con la mano.
Mi sono emozionato vedendo la tenacia dei loro genitori che vivono in un luogo inospitale, senza acqua ed allevando su un terreno sterile e polveroso.
Mi sono emozionato quando per un lungo tratto ho diviso la strada con due aquile che libere volavano al nostro fianco; o quando un gruppo di gazzelle spaventate ci ha tagliato la strada costringendoci a fermare la moto per qualche secondo.
Tuttavia, a fianco a queste magnifiche immagini che rimarranno con me per tutta la vita ce ne sono altre. Realtà meno piacevoli che mi sono state raccontate da chi qui c’è cresciuto, o che sto vivendo in questi due mesi di stage con una compagnia televisiva keniota.
Questo è un continente pieno di contraddizioni, dove corruzione, false speranze, discriminazioni e violenze prolificano all’improvviso; anche in Kenya, uno dei paesi che più si è sviluppato e che meno ha sofferto dal giorno della sua indipendenza dal dominio inglese nel 1963.
conflitti

Nairobi è una città con un tasso di criminalità spaventoso. Rapine a mano armata, scippi, furti d’auto ed omicidi sono all’ordine del giorno, tanto che in passato la città si è aggiudicata il soprannome di “Nairobbery” (gioco di parole basato sul vocabolo inglese “robbery”: rapina).
Anche senza alcuna precedente esperienza della città, un senso d’insicurezza si percepisce immediatamente.
Vedere poliziotti e militari armati di AK-47 camminare per strada è cosa normale. Inoltre, qualsiasi luogo pubblico è dotato di metal detector. La maggior parte delle palazzine e delle case indipendenti è circondata da mura, filo spinato ed elettrico; i cancelli vengono sorvegliati 24 su 24 da guardie. Così anche molti bar, ristornati e centri commerciali.
La povertà anche è evidente. Kibera, con oltre un milione di abitanti, è una delle baraccopoli più grandi di tutta l’Africa e si espande per gran parte della capitale keniota.
Tuttavia, quello che è forse il più radicato problema, è la divisione tribale. In Kenya ci sono 42 tribù. Tutte hanno tradizioni ed origini differenti.
Queste divisioni etniche, oltre ad essere culturali, sono anche socio-politiche e si riflettono sui comportamenti e le decisioni dei cittadini kenioti.
Ebraheem, ragazzo ventiduenne, nato e cresciuto a Nairobi, mi racconta che in Kenya, il “voto tribale” è ancora una realtà diffusa: “Per molti, votare un candidato di un’altra tribù, non viene neanche preso in considerazione. Io faccio parte dei kikuyu, la stessa tribù dell’attuale Presidente, Uhuru Kenyatta, eletto nel 2013; ma non vuol dire che sia d’accordo con tutto quello che dice.”
Dal giorno della sua indipendenza, il Kenya ha sempre avuto presidenti appartenenti al gruppo kikuyu, l’etnia maggioritaria.
Questa divisione sfociò nel 2007 con le violenze post-presidenziali.
Il 30 Dicembre, durante una conferenza stampa, Raila Odinga, candidato per l’Orange Democratic Movement, accusò il Presidente, Mwai Kibaki, di brogli elettorali per assicurarsi il secondo mandato.
La comunità internazionale espresse numerosi dubbi sullo svolgimento delle elezioni ed, immediatamente, manifestazioni violente di protesta scoppiarono nelle strade keniote. Essendo Odinga membro dell’etnia luo e Kibaki dell’etnia kikuyu, le violenze presero fin da subito le sfumature delle guerre tribali.
Uomini e donne, che fino al giorno prima vivevano e lavoravano fianco a fianco, cominciarono a massacrarsi senza pietà in tutto il Paese.
Anche la polizia, secondo Human Rights Watch, adottò pratiche brutali, spesso sparando con il fine di uccidere.
Quando, grazie alle mediazioni di Kofie Annan e Ban Ki-Moon, le due parti politiche arrivarono ad un accordo a fine febbraio 2008, ponendo gradualmente fine alle manifestazioni, i morti avevano già superato i 1300 e più di 600mila persone erano rimaste sfollate e lontane da casa.
Le immagini crude e violente di quei lunghi e terrificanti mesi sono state pubblicate sui giornali di tutte le testate internazionali, soprattutto grazie al coraggio di Boniface Mwangi, fotogiornalista all’epoca venticinquenne.
“Abbiamo sfiorato per un pelo la guerra civile. Chi ha vissuto quei momenti lo sa e si è accorto dell’instabilità, della corruzione e della brutalità di questa nazione. Qualcosa che i politici hanno sempre cercato di nascondere, ma che ora è evidente,” ha spiegato Boniface durante una conferenza a Pawa254, l’associazione culturale che ha fondato in centro a Nairobi con altri artisti e giornalisti politicamente militanti.
Nonostante le continue promesse, il governo keniota ha sempre fallito nell’organizzare una commissione d’inchiesta per consegnare i responsabili della crisi post-elettorale alla giustizia. Così, nel 2010, la Corte Penale Internazionale dell’Aia si è fatta carico della questione.
Tra gli imputati vi è anche l’attuale Presidente Kenyatta, accusato di aver organizzato e finanziato una banda formata da kikuyu, per sostenere Kibaki ed assalire altri gruppi etnici.
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L’8 ottobre 2014, Kenyatta si è presentato davanti alla Corte Internazionale diventando così il primo capo di stato ad essere ascoltato dai giudici dell’Aia.
Il processo è ora in stallo.
Da una parte, il Presidente keniota afferma che l’accusa non ha prove a suo carico e che quindi il processo deve concludersi; dall’altra, l’accusa afferma che il governo ed il presidente non stanno collaborando, rifiutandosi di consegnare documentazioni e prove fondamentali in loro possesso.
La corte dell’Aia ha così rinviato il processo concedendo all’accusa più tempo per trovare le prove necessarie.
Al suo rientro in patria Kenyatta ha affermato: “Non c’è nulla di cui preoccuparsi perché ormai il Kenya è una nazione unita e stabile.”
Tuttavia, in molti non la pensano così.
“I miei genitori non sopporterebbero che io, per esempio, sposassi una ragazza di un’altra tribù. Ma a me non interessa,” dice Ebraheem. “La situazione a Nairobi sta leggermente migliorando con la nuova generazione. I giovani sono più istruiti e viviamo ormai in un ambiente cosmopolita dove culture, non solo africane, ma da tutto il mondo, si incontrano. Però, la situazione è sempre la stessa fuori dalla capitale e nei villaggi. Quello che spero è che almeno i miei nipoti possano vivere in un Kenya veramente unito, dove le tribù non siano altro che un orgoglio culturale, ma dove i cittadini si sentano parte e figli di un’unica nazione.”

Simone Sarchi

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