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Giuseppe Ciarallo, (in foto, ritratto da Stefano Calanchi) molisano di origine, è nato nel 1958 a Milano. Ha pubblicato tre raccolte di short-stories, Racconti per sax tenore (Tranchida, 1994), Amori a serramanico (Tranchida, 1999), Le spade non bastano mai (PaginaUno, 2016) e un poemetto di satira politica dal titolo DanteSka Apocrifunk – HIP HOPera in sette canti (PaginaUno, 2011); ha inoltre partecipato con suoi racconti ai libri collettivi Sorci verdi – Storie di ordinario leghismo (Alegre, 2011), Lavoro Vivo (Alegre, 2012), Festa d’aprile (Tempesta Editore, 2015); suoi componimenti sono inclusi in varie raccolte antologiche di poesia: Carovana dei versi – poesia in azione 2009, 2011 e 2013 (Ed. abrigliasciolta), Aloud – Il fenomeno performativo della parola in azione (Ed. abrigliasciolta, 2016), Parole sante – versi per una metamorfosi (Ed. Kurumuny, 2016). Scrive di letteratura su PaginaUno e InKroci, collabora con A-Rivista anarchica, e Buduàr, rivista on line di umorismo e satira. Fa parte del collettivo di redazione di Letteraria/Nuova Rivista Letteraria fin dalla fondazione.

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Intervista a Giuseppe Ciarallo

servizio di Francesco Basso

Il libro racchiude numerose storie che spaziano dalla distopia allo zombie tales, dalla denuncia alla fantapolitica, generi che sembravano lontani dagli scrittori italiani ma che tu articoli e presenti in modo impeccabile. Da qui si intuisce che forse, proprio per questo, sei tra i redattori di Nuova Rivista Letteraria e che quindi possiamo denotare che lo sperimentalismo non è morto. Cosa rappresenta per te il tuo libro?

Dici bene. Nuova Rivista Letteraria è un semestrale di letteratura sociale e nei miei lavori c’è proprio questa vocazione. Seppur attento a un linguaggio accurato, attraverso una ricerca spasmodica della parola “giusta”, non sono interessato ai manierismi, la bella scrittura fine a sé stessa mi sembra solo uno sterile esercizio di onanismo letterario. I personaggi dei miei racconti, pur se spesso calati in situazioni assurde e paradossali sono espressioni del conflitto (personale, lavorativo, sociale) che rende il mondo qualcosa di interessante, degno di essere vissuto. In un mondo perfetto, e dunque in equilibrio stabile e assenza di conflitti, l’arte non avrebbe ragione di essere. Perché l’arte in generale, e la letteratura in particolare, deve occuparsi del difetto, della stortura, dello squilibrio, dell’elemento che incrina la normalità, e dunque del conflitto. La mia scrittura è influenzata anche dal taoismo, filosofia (ho detto filosofia e non religione) cinese cui mi sono avvicinato nei miei anni giovanili quando praticavo, anche con qualche risultato, il kung fu. Il Tao è il punto di equilibrio sempre molto labile, è la rappresentazione della dualità di ogni cosa, dell’importanza dei contrari. Non può esistere la notte senza il giorno, il bello senza il brutto, il maschile senza il femminile, il bene senza il male. Ecco, nei miei racconti mi piace tenere i personaggi in perenne sospensione tra l’orribile e il magnifico, che è poi la condizione di ogni essere umano. C’è da aggiungere che non amando in particolar modo il momento storico che mi è toccato in sorte, la scrittura è un ottimo rifugio per sperimentare storie di “altri mondi possibili”, di altre vite, attraverso la tecnica del rovesciamento repentino di senso. Nessuna delle mie novelle finisce come il lettore è portato a credere: c’è sempre una sorpresa che scompagina la normalità. Se dovessi catalogare in uno specifico ambito la mia scrittura, senza alcuna esitazione parlerei di neosurrealismo.

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per sapene di più su Nuova RIvista Letteraria http://ilmegafonoquotidiano.it/letteraria/nuova-rivista-letteraria-n-4-nuova-serie-novembre-2016

“Le spade non bastano mai” è composto da 22 racconti autoconclusivi che però vanno a comporre un mosaico ben determinato, che per certi versi è quello che succede alla tua copertina. Parlaci della cover del tuo libro.

I ventidue racconti sono racchiusi in tre appositi contenitori: il primo, dal titolo “Palinsesto” è costituito da cinque novelle che hanno come filo conduttore i media e l’impatto che essi hanno sulle vite delle persone; il secondo, dal titolo “Con occhiali dadaisti” contiene invece tre racconti dal tono surreal-sarcastico che sono un omaggio al genio visionario di Anton Germano Rossi, autore satirico la cui scrittura era talmente folle da riuscire a passare attraverso le strette maglie della censura del Ventennio anche quando esprimeva una profonda avversione per il militarismo; il terzo gruppo di racconti, infine, sotto il titolo “La vita (m)agra” (con un chiaro riferimento al capolavoro di Luciano Bianciardi) compone un puzzle che nel suo insieme vuole rappresentare la follia di questi nostri anni.

Mi chiedevi poi della cover. La copertina del libro, che ho realizzato personalmente, non è altro che il risultato di un momento di rilassatezza creativa, una mezza giornata che mi sono preso per dedicarmi a raggruppare per immagini i miei principali interessi. Un piccolo divertissement, quindi. L’opera grafica, dall’evocativo titolo “Part of my world” è composta da tante figurine che ho ritagliato e incollato sullo spartito per saxofono di una ballad di Sam Rivers: le immagini rappresentano il mio universo musicale (Fank Zappa, il jazz, Charlie Parker), quello del mio cinema (Harold e Maude e Marylin), dei libri che amo (Dostoevskij e nello specifico “I fratelli Karamazov”), dei miei fumetti (Corto Maltese e Fritz the Cat), esprimono la mia passione per il rugby, e poi la mia Anarchia, il mio passato e le mie indispensabili Lucky Strike. Il risultato finale è piaciuto molto all’editore, ed è così che è nata la copertina delle Spade.

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info su: http://www.edizionipaginauno.it/Le-spade-non-bastano-mai-Giuseppe-Ciarallo.php

Il sosia di Paul McCartney, un programma televisivo che obbliga i concorrenti a dire tutta la verità nient’altro che la verità, morti viventi molto particolari, il futuro alla porte e non proprio del tutto roseo, tutti ingredienti freschi, genuini che sembrano correre parallelamente alle tematiche del telefilm Black Mirror e a scenari post apocalittici o prossimi venturi. Credi che il futuro sarà proprio così tenebroso oppure c’è ancora speranza?

Sinceramente non ne ho la minima idea. Molti comportamenti schizofrenici dell’uomo del terzo millennio hanno fatto vacillare più di una mia inossidabile certezza. C’è chi sostiene che l’uomo, ogni volta che nella sua storia si è trovato sull’orlo del baratro, è stato capace di fermarsi per tempo. Personalmente credo che ci si sia avventurati nel lato sbagliato di un bivio, e non so se saremo in grado di tornare sui nostri passi, fino all’origine della biforcazione per imboccarne il ramo giusto. In ogni caso io voglio essere testimone dell’assurdo viaggio intrapreso dall’umanità. Le cose da raccontare non mancano, non credi? E io voglio farlo, con i miei mezzi e gli strumenti che ho a disposizione.

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Quali scrittori senti più vicino a te e che possono essere stati d’aiuto come fonte d’ispirazione?

Mi sento in tutto e per tutto un uomo del Novecento (con la pena di non aver avuto la possibilità di assistere ai tanti esaltanti avvenimenti della seconda metà dell’Ottocento). I miei riferimenti più “recenti” sono Jovine e Silone, miei conterranei, mentre gli dei del mio Olimpo letterario sono Dostoevskij, Kafka, Sartre, e tra i contemporanei Bukowski e Fante. La schizofrenia di alcuni miei personaggi è tutta dostoevskijana, il paradosso di alcune situazioni kafkiano…

Cosa vuol dire scrivere per te?

Scrivere è un bisogno, un’urgenza, una terapia, un modo di ingabbiare e ridimensionare il delirio di onnipotenza che di tanto in tanto coglie qualsiasi essere umano. La scrittura stessa poi, provvede a calmare i bollenti spiriti dello scrittore portando le storie dove vuole lei. Capita spessissimo di pensare situazioni e personaggi indirizzandoli su un sentiero prestabilito. Poi i personaggi si animano, si ribellano al fato, prendono corpo e pretendono di essere artefici del loro destino, e a quel punto lo scrittore da burattinaio diventa mera penna che riporta su carta le vite di altri, eroi d’inchiostro immersi in storie inesorabili. Ma per me la scrittura è anche divertimento, convinto come sono che l’ironia e l’autoironia siano un valido metodo per non impazzire. L’ironia nella mia scrittura è la valvola di sfogo che permette al mio cervello/pentola a pressione di non esplodere, sottoposto com’è a continua tensione da parte di un mondo sempre più schizoide e difficile da interpretare. Ogni volta che rileggo, e l’ho fatto decine e decine di volte, il mio racconto “I vestiti nuovi del premier”, pur conoscendone a menadito ogni singola parola non posso fare a meno di ridere come un cretino.

A chi indirizzeresti il tuo libro?

Innanzitutto mi piacerebbe che venisse riconosciuta, nel nostro Paese, la stessa dignità che la forma racconto ha nei paesi anglosassoni. Negli Stati Uniti si paga per assistere ai reading, durante i quali gli autori leggono e raccontano le proprie opere incontrando il pubblico. In Italia, poesia e racconto sono considerati generi senza alcuna potenzialità commerciale, e quindi gli spazi per la loro pubblicazione sono davvero minimi. I miei racconti non hanno un pubblico specifico, sono colmi di riferimenti che rimandano ad altre forme espressive (musica, cinema, fotografia, pittura) e che mi piace pensare stimolino nel lettore curiosità e desiderio di approfondire. E poi, come dicevo, c’è molta ironia nella sua forma più nobile, la satira. E l’ironia non ha età, se coglie nel segno, diverte giovani e meno giovani. Se però devo individuare una specifica categoria, vorrei che i miei racconti raggiungessero tutte quelle persone che, nonostante i deleteri condizionamenti esterni, resistono imperterriti opponendosi quotidianamente all’ammasso dei cervelli.

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I tuoi prossimi lavori e incontri letterari.

Nell’immediato vorrei dedicarmi principalmente alla promozione delle Spade. In futuro mi piacerebbe riprendere una forma di scrittura che ho già sperimentato nel mio precedente libro “DanteSka ApocriFunk– Hip Hopera in sette canti”: la quartina di endecasillabo in rima baciata alternata. Qualche anno fa mi accorsi che la scrittura del racconto era diventata per me un atto automatico; i meccanismi metabolizzati in tanti anni di attività (i miei primi lavori risalgono al 1986) mi portavano a scrivere senza provare fatica. Ecco, era la fatica quella che volevo recuperare. Sudare, e abbondantemente, alla ricerca di ogni singola parola. Occorreva quindi darsi dei paletti molto rigidi e stretti (la rima alternata, il verso in endecasillabo, il rifiuto della rima banale, verbi all’infinito e quant’altro). DanteSka è il risultato di questa ricerca, durata un paio d’anni nei quali sono passato dalla gioia di una quartina che come per incanto mi veniva suggerita all’orecchio dal dio delle Lettere, e la disperazione di non riuscire a trovare la parola per rendere perfetta una strofa, perché se per il termine che hai pensato non trovi una parola in rima, quel termine va cambiato, e anche se la rima la trovi devi rispettare il limite delle undici sillabe, e se pure rima e endecasillabo sono in ordine c’è il problema degli accenti e del ritmo della frase. Insomma, cercavo fatica e sudore e fatica e sudore ho trovato. Al contempo penso che questa forma stilistica sia esaltante per uno scrittore e non ho alcuna intenzione di negarmi il piacere di ripetere l’esperimento.

Lasciaci con un aforisma o un tuo pensiero…

C’è una frase che ho coniato, a testimonianza dell’immenso amore che nutro per i libri, e che mi piace accompagnare a un disegno dell’illustratore spagnolo OPS (pseudonimo di Andrés Rabago Garcìa) che mostra un piccolo Davide in divisa da scolaretto e fionda nella mano, che ha appena abbattuto un gigantesco Golia giacente a terra con un libro conficcato nel cranio. La frase recita: “Strani oggetti, i libri. Pericolosi e ambigui: creano al contempo dipendenza e indipendenza”.

 

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