La stagione dell’uomo di Arcore è ormai agli sgoccioli e la “primavera italiana” bussa alle porte, preparata dai mattinali confezionati dai sondaggisti per monitorare la febbre dell’elettorato e indovinare l’antipiretico che i malati prenderanno per farsela passare.
I dati clinici in circolazione mutano a seconda del committente e dell’analista però su uno concordano tutti: c’è già all’orizzonte una coalizione politica destinata a prevalere su qualsiasi altra possibile combinazione vincente.
E’ una previsione che mette in conto anche il mercato delle vacche del dopo elezioni ma che, però, nella grande abbuffata di cifre trascura o sottovaluta la presenza di un convitato di pietra, l’assenteismo.
Fino a ieri ai sicuri perdenti il non-voto poteva offrire una specie di airbag per assorbire la botta, consolandosi che in fondo si trattava di elettori in libera uscita destinati prima o poi a rientrare, mentre i vincitori predestinati potevano sempre replicare parlando di tappa intermedia in un esodo senza ritorno.
Ma oggi, col saccheggio dei budget regionali e la vergogna dei piè di lista, la politica ha perso la faccia e non può più leggere pro domo sua il dato dell’assenteismo, consolandosi con alibi a posteriori o prenotando sempre maggiori consensi, e le legioni dei disertori delle urne marciano compatte sotto le insegne dell’antipolitica, Trinacria docet.
Così quel fenomeno negativo che in un passato ancora abbastanza recente veniva considerato dalle statistiche elettorali alla stregua del dato “non pervenuto” dei bollettini meteorologici, oggi è al centro delle strategie di tutte le parti politiche.
Qui non si tratta, come nel duello Obama-Romney, di convincere degli indecisi ma di convertire tutti coloro che una decisione l’hanno già presa ed è quella di voltare le spalle a una politica che li ha profondamente delusi e disgustati.
La crisi ha azzerato il voto di scambio e l’ingordigia di pochi ha sputtanato tutti e così come extrema ratio nelle mani della politica è rimasto soltanto il self-service delle preferenze e delle primarie con le quali l’elettore viene sfidato a prelevare personalmente dagli scaffali e a mettere nel carrello i rappresentanti politici ai quali affidare il potere, accollandosi la responsabilità del loro operato e pagando alla cassa con la carta di credito della propria coscienza per eventuali errori di valutazione commessi nella scelta.
Funzionerà? Difficile dirlo, specialmente qui in Liguria, Patria del “piggia u paegua, maniman ceuve”, dove poi tutte le volte va a finire che piove davvero.
A forza di stracci bagnati in faccia e di bidoni la gente da queste parti ha sviluppato l’orecchio musicale e riconosce le stecche già dalle prime note senza dover ascoltare la solita “fôa du Bestentu ch’a dûa lungu tempu” e che ormai non addormenta più nessuno.
“Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori» così Mussolini nel ’42 definiva gli italiani nell’epigrafe che campeggia sulla facciata del Palazzo del Lavoro all’EUR.
Oggi, settant’anni dopo, se la Liguria dovesse rivendicare una soltanto tra queste otto qualità sono sicuro che preferirebbe sempre quella della navigazione.
Memore più di Ulisse che di Colombo perché lui per non ascoltare le Sirene si fece legare all’albero maestro della nave.
I naufraghi che sulle scialuppe delle primarie sono pronti a sbarcare su queste coste bisogna che lo sappiano in tempo.
Br.Gi.

 

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